di Marco Caineri, giornalista
Abbiamo dovuto supplicare le nostre valigie, convincerle a tornare. Perché non volevano saperne. Hanno continuato a girare per l’Europa un altro paio di giorni dopo il nostro rientro a casa. Sono rimaste in volo da qualche parte, fra Stoccolma e Venezia, forse a cercare di vedere quello che noi avevamo già visto e loro, chiuse in camera, ci avevano sentito raccontare. Inutile provare a spiegarlo alla signorina veneta del desk, a Tessera, incredibilmente più fredda e incomprensibile della sua omologa collega svedese. Lassù, a Kiruna, dove la valigia di Silvia aveva tentato la sua prima fuga (una scappatella all’Ice Hotel sotto il cielo artico dev’essere sembrata irresistibile per un modello di Samsonite che si chiama “Cosmolite”). Là, dicevo, ci aveva assistito una delle tre signore che apparentemente gestiscono in autonomia l’aeroporto più a nord della Svezia. Le avete viste? Fanno tutto loro. Check-in, controllo documenti, ritiro carte d’imbarco. Le saluti da una parte lasciando loro la valigia, ti giri, e te le ritrovi davanti che ti sorridono chiedendoti il biglietto. Sono convinto che, dopo la nostra partenza, lei, quella che ci aveva accolto all’andata per aiutarci a rintracciare la valigia fuggiasca, si sia messa a preparare kottbullar e hotdog di renna al bar dell’aeroporto. Altrimenti, tra un volo e l’altro (cioè i due in tutto che partono ogni giorno da là) come passano il tempo? Aeroporto a conduzione familiare. Che è un bell’aggettivo per descrivere la sensazione che ci ha lasciato questo viaggio. Familiare. Saranno stati Galileo e Mafalda (anzi, Sofia, che sennò la nonna si arrabbia…), sarà stato l’affiatamento spontaneo, morbido, senza fatica, che si è creato nel gruppo. Un gruppo che pure era non poco eterogeneo. Saranno stati il freddo, il silenzio, la distanza da tutto. Il ritmo rallentato dei passi e dei pensieri. Il buio che vorrebbe stravincere e invece no. La luce fioca ma calda nelle case, le case senza tende alle finestre che ti vien voglia di guardarci dentro (ma là nessuno si sogna di farlo). Le spiegazioni sull’aurora. Come nasce, come si forma, come cambia. Il direttore di un centro scientifico che ti aspetta e ti accoglie in un giorno festivo. Sarà stato tutto questo. Sospetto che se con lo stesso identico gruppo ci fossimo trovati a Milano, probabilmente saremmo diventati nervosi e insofferenti prima del tramonto. E non avremmo nemmeno avuto la speranza di un aurora boreale in arrivo, la sera, a riconciliarci. Perché l’aurora è stato il magico miraggio che ci ha portato lassù, ma è stata un dippù, o forse una scusa. L’abbiamo vista (chi più, chi meno, a seconda della resistenza al sonno – o della motivazione) e ci ha soddisfatto. Io sono perfino orgoglioso di quella foto che mi ha scattato Gabriele davanti alla Dama Fuggente. Purtroppo era l’aurora numero 2 di quella notte, non la famigerata numero 3. Alla terza io e Silvia dormivamo, ma non riuscirete – Gabriele, Michela, Luca e integralisti dell’aurora tutti – ad instillare in noi alcun senso di rimorso per questo. Perché tutto il resto l’abbiamo goduto. Ed è quello che ci porteremo dentro. I posti, le luci, la gente, la compagnia. Le piccole cose che in così poco tempo abbiamo capito di alcuni e carpito da altri. Perfino il cibo. E i bagagli che scappano, con la valigia di Silvia recidiva nella fuga. Peccato per loro, perché non essendoci, quel giorno a Venezia, loro che l’aurora non l’hanno vista, si sono persi anche lo spettacolo che ci ha accolto appena fuori dall’aeroporto di Venezia, quasi a cercare di accendere una rivalità con quello che avevamo visto altrove. C’era un incredibile arcobaleno. In pieno inverno. Ad arco completo. Con tutti i colori. Boreale.
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Gli autoriSono persone che hanno viaggiato con noi e che hanno deciso di condividere le proprie emozioni scrivendo dei racconti, delle poesie, delle testimonianze I racconti
Marzo 2018
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